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16 maggio 2005

Perché l'eterologa fa paura ai maschi

di Letizia Paolozzi
dal sito di Liberazione

Ho degli amici (non sono soltanto esponenti politici come Massimo D'Alema) che esprimono un sincero e angosciato disagio sul quesito n. 3, quello attinente alla fecondazione eterologa. Gli fa problema perché - mi spiegano - il figlio nato dal seme di donatore ignoto ha il diritto di rintracciare la paternità biologica.

Non risponderò a questi uomini che meglio sarebbe stato battersi - invece che contro il supposto Far West della riproduzione assistita - per il ricorso ai centri autorizzati di ovuli e spermatozoi di donatori per i quali, nella Spagna di Zapatero, viene stabilito un apposito albo.

Non userò l'osservazione, pur assennata, che nell'adozione non è contemplata la conoscenza dei genitori biologici.

Eviterò di ricordare i "bambini venuti dal freddo". Pur essendo vero (come osserva un documento dei Gruppi donne delle Comunità cristiane pubblicato su Liberazione) che ormai "i primi nati con la fecondazione assistita - omologa ed eterologa - vanno all'università e sono milioni nel mondo".

Neppure mi sembra convincente la copertina di Diario. Troppo sensazionalismo. Con la sgradevole sensazione che, se non mi piace (come non mi è piaciuta) dovrò collocarmi nel girone dei bigotti e dei moralisti.

Tanto per tenere aperta la dimensione del dubbio, mi piacerebbe, invece, ragionare a partire dalla realtà empirica. Per chi, persona in carne e ossa, non scelse la castità, sarebbe meglio riandare un po' alla vita concreta. Ai rapporti che gli capitò di intrecciare.

Sono rapporti che forse hanno segnato una notte d'amore, desiderio, passione, avventura, nostalgia, infedeltà, futilità, capriccio, esibizionismo. Con la possibilità che si siano lasciati andare a qualche sciagurata avventatezza. Trasformandosi, in quella precisa notte, in padri biologici.

Donatori che non sanno e per i quali l'anonimato paterno è sempre possibile. Non hanno idea di cosa sia successo. Non vogliono sapere. Aspettano che sia lei a parlare.

Il ministro Antonio Martino, in una intervista sul Corriere della Sera di qualche giorno fa, riferendosi al donatore esterno alla coppia, osservava: "Nella nostra legislazione nulla vieta l'adulterio che, come noto, può essere un metodo di fecondazione naturale".

In effetti, basta che una donna lo decida e il marito non saprà mai nulla. Il figlio non supporrà di avere un padre biologico. Su quello che è accaduto in quella notte, e sul dopo, lei ha "la prima parola e l'ultima" (così in un vecchio documento femminista).

Ma non solo di adulterio si tratta.

«Che cosa ho fatto in questi anni? Sono andato a letto presto» risponde Noodles-De Niro in C'era una volta in America. Al ritorno, troverà l'amata che aveva violentato. E un figlio, frutto di quello stupro. Certo, Noodles è un gangster. Un violentatore. Un irresponsabile.

Al contrario, i miei amici sono persone serie. Eppure, anche a loro sarà capitato di interrogarsi sulle "conseguenze dell'amore" che non sono poi così limpide, asettiche, governabili.

Certo, da quando mettiamo al mondo dei bambini, noi donne abbiamo un ruolo: pulire i neonati, lavare i cadaveri (nell'Ulisse di Joyce). Poi, questo ruolo è cambiato. Abbiamo capito la nostra competenza.

Che tuttavia ha subìto molte scosse. Per via della scienza, che cambia il modo di mettere al mondo i bambini. Mettendo in forse quell'unità con il figlio che stabiliva il primato materno sulla vita. Non regge la famiglia se si insiste a considerarla istituzione "naturale".

Conosco famiglie biologiche ma anche famiglie legali e sociali. Genitori adottivi; nonni che si occupano dei nipoti; padri o madri acquisite che allevano i figli nati da un'altra coppia. Le forme di convivenza, di patti sono quanto mai varie.

Non voglio dire con questo che stiamo passando dallo schema gerarchico del padre-padrone a uno nel quale è lei, da sola, a portare avanti la maternità. Piuttosto, se la nozione della coppia indissolubilmente legata dal matrimonio non rappresenta più la norma, l'impegno, rispetto ai figli, oggi consiste piuttosto nel condurre un piccolo essere fino all'età adulta. Allevandolo, amandolo, proteggendolo.

Qui sta, se viene accettata, la corresponsabilità paterna. Una corresponsabilità simbolica e non biologica.

Ma allora, perché i miei amici e i maschi in genere, rivendicano con tanta forza la necessità di sapere il nome del donatore? Secondo me perché prescindono dalla loro stessa esperienza. Quasi che partire dall'esperienza comportasse la negazione di problemi etici e religiosi e politici.

C'è, piuttosto, una perdita di autorità, di statuto virile, di una interpretazione forte della paternità. Insomma, una sorta di sradicamento dalla vecchia condizione sociale. Non c'è bisogno di citare le incertezze sull'identità e le forme di fondamentalismo culturale messe in rilievo da Arjun Appadurai (in Sicuri di morire Meltemi, pagg.190, euro 17,00). Succede da quando le donne rifiutano di stare al posto loro riservato dall'ordine patriarcale.

L'insicurezza di fronte al procedere veloce della scienza è un altro elemento. Avete presente l'esperimento della topolina Kaguya, concepita senza padre, grazie alla partenogenesi? Oppure l'utero artificiale creato da un gruppo di ricercatori americani per cui l'embrione si può sviluppare fuori dal corpo femminile?

Con la fertilizzazione in vitro era già diminuito il ruolo dell'uomo nei processi di fecondazione; con l'utero artificiale anche il ruolo femminile potrebbe essere declassato a semplice fornitrice di cellule.

Mette paura tutto questo. Una paura che si ritrova nel disagio di fronte all'eterologa. Non è cosa solo di filosofi questa "ossessione per l'origine" (in Relazioni di Federica Giardini, Luca Sossella editore, 206 pagg. 12,00 euro). D'altronde, a me sembra di poter dire che gli uomini e le donne reagiscono differentemente. Le donne, nello sdoppiamento del loro corpo, comunque nella nascita, vedono un momento (pur importante) ma soltanto un momento, della relazione con il figlio che non si conclude con il momento della nascita.

I miei amici suppongono, al contrario, che attraverso il nome del donatore del seme, si ristabilisca l'autorità paterna. Ora io mi chiedo e chiedo loro: sul serio credete che un seme (e un nome) possa rappresentare la soluzione di questo grandissimo problema?