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18 ottobre 2005

Quei matti dell'Homebrew computer club - dal Manifesto del 16 ottobre 2005

Da un piccolo gruppo di «fanatici» dell'elettronica, pienamente interni alle comunità radicali degli anni '70, è nata la grande semina di idee che hanno cambiato la tecnologia informatica. Sono rimasti anche gli unici ad esser riusciti a «rubare» un programma a Bill Gates



FRANCO CARLINI - il manifesto - 16 ottobre 2005

C'era una volta, trent'anni fa, nella Bay Area di San Francisco, un gruppo di giovani che si riuniva almeno una volta al mese in un garage messo a disposizione da uno di loro. Il gruppo di chiamava Homebrew computer club e all'apparenza altro non era che un manipolo di una trentina di fanatici della microelettronica. Gli incontri erano dedicati soprattutto ai trucchi del mestiere e l'oggetto del desiderio era il microcomputer, da costruirsi a mano, in casa, con saldatori e pinze. Infatti erano ormai disponibili dei circuiti integrati a basso costo e già circolavano alcune scatole di montaggio, come quelle del micro chiamato Mits, della Altair. Ma c'erano una quantità enorme di problemi da risolvere, pratici, concreti e d'ingegno.

Questa era una faccia del club. L'altra era la cultura sognatrice, radicale, libertaria e psichedelica che si portavano dietro dagli ultimi anni '60 che a Berkeley, ma anche a Stanford, avevano visto migliaia di giovani per la libertà di parola, contro l'autoritarismo e soprattutto contro la guerra del Vietnam.

Un retrospettivo omaggio e ricostruzione di quella cultura è contenuto tra l'altro in un libro recente di John Markoff, famoso reporter tecnologico del New York Times. Si intitola «What the dormouse said» ma si capisce meglio dal sottotitolo: «Come la controcultura degli anni '60 ha dato forma all'industria del personal computer».

Sembra una tesi ardita e generosa, specialmente di questi tempi in quella cultura viene considerata all'origine di tutte le disgrazie, almeno in Italia. Dall'America invece ci spiegano che la più importante industria avanzata, quella digitale, è anche il frutto traumatico ma positivo di una rottura culturale.

Fino ad allora la California e San Francisco poco avevano contribuito all'industria informatica, semmai concentrata sull'altra costa: ad Armonk, New York, quartier generale della Ibm, e sulla Route 128 attorno a Boston e al suo Massachussets Institute of Technology. Dagli '70 e tuttora, è la California il luogo per definizione delle creazioni intellettuali hitech.

Si potrebbe sostenere che, come sovente accade, i movimenti alternativi aprono delle strade e che queste vengono poi fatte proprie e trasformate in business dalle grandi corporation. Il che è senza dubbio vero, e tuttavia quei movimenti lasciano non solo dei ricordi, ma anche delle tracce indelebili e di lunga durata.

Si prenda il caso di Robert Marsh, che allora era uno dei giovani del Club. Ebbe poi una lunga carriera di imprenditore e tuttora è in affari digitali, con uffici nel cuore pulsante di San Francisco, in Market Street. La sua Inveneo sembra un'azienda tecnologica come tante, ma già il suo indirizzo web (www.inveneo.org) ci segnala, con il suffisso .org che si tratta di una non profit. Produce tecnologie e progetti di sviluppo per paesi africani. Così in tre villaggi del distretto di Bukuuku, in Uganda, la Inveneo ha piazzato un'antenna satellitare, collegata con san Francisco, una linea telefonica analogica, un modesto server e un'antenna Wi-Fi che copre il villaggio. Con tali apparati poco costosi i 3.200 abitanti dei villaggi coinvolti telefonano tra di loro e potenzialmente con il mondo.

Dunque quell'idea utopica dei computer al popolo ancora vive, nella forma di tecnologie appropriate e leggere per i popoli.

Il computer club di allora torna di attualità anche per un'altra questione. Fu lì infatti che nel 1975 avvenne il primo «furto» di software, ai danni, pensate un po', di Bill Gates che era andato fino in California a propagandare il suo Basic. Glie lo riprodussero in 70 copie, poi distribuite agli amici del club. Negli anni a seguire Gates sembrò avere ragione: il software era un prodotto di massa, da vendere protetto e inchiavardato, coperto da copyright prima e poi da brevetti. A parlare di software a sorgente aperta (Open Source) rimasero pochi estremisti culturali, testardamente affezionati all'idea che le idee sono di tutti e devono circolare e che i programmi appunto sono solo idee e non mercanzia.

Da qualche anno in qua, tuttavia, l'eresia del software libero è tornata in auge, diventando persino un modello di produzione e distribuzione, e cioè una modalità del mercato. Avviene soprattutto (ma non solo), lungo una filiera che gli informatici oramai chiamano LAMP: vuol dire Linux (il sistema operativo di base), Apache (il software per animare i server dell'internet), MySql (un sistema di archivi, o database) e Php, linguaggio con cui realizzare siti, a partire dai contenuti depositati nel database). I padri di questo filone sono il famoso finlandese Linus Torvalds, insieme ad altri più di lui schivi: Brian Behlendorf (Apache), anch'egli finlandese, Michael Widenius (MySql), e il danese-canadese Rasmus Lerdorf (Php). E ancora, al di sopra di questi software, una popolazione sparpagliata di programmatori va producendo, sempre in Open Source, altri programmi. Per esempio Mambo, uno dei molti sistemi per gestire i siti (Content Management System), o ancora dei software per le relazioni con i clienti (si chiamano CRM) e persino degli ERP.

Cosa saranno mai questi ultimi? La sigla vuol dire Enterprise Resource Planning, e sono dei megasistemi di solito costosissimi, per pianificare e gestire tutte le attività di un'azienda, dal magazzino al personale. Anche qui il «tarlo open» va rosicchiando velocemente, persino in Italia. Si guardi per esempio il software Erp chiamato Compière, creato dalla piccola azienda italiana Mayking (www.mayking.com/). Attorno ad esso, e grazie al portale di sviluppatori Open Source attivato dalla casa di computer Sun (www.javaopenbusiness.it), si va sviluppando una comunità di programmatori-sviluppatori molto interessante.

Sono solo esempi, ma tutti ci confermano che il sogno di quelli dell'Homebrew: un mondo software relativamente disinteressato, proiettato sulla condivisione delle idee piuttosto che sulla competizione selvaggia, non era roba da sessantottini frullati nel cervello, ma anticipazione lungimirante di tendenze importanti. Sia detto senza nostalgia alcuna, ma come tranquilla constatazione di un successo.

13 ottobre 2005

Io effettivamente passo troppo tempo navigando...


...E quei che navigan in internet

passen la vita
a cercar i tett
a la matina quand leven su
cerchen il mouse
e sel troven in del
Puli puli puli pu'
fa il tacchino
pric prac pric prac
fa il purgante
buttami giu' l'inquilino
e di noi che cosa sara'......

tra l'altro molto del mio tempo passato in rete è alla ricerca de "i tett"

Tratto da "L'Inquilino" dei grandi e geniali COCHI e RENATO.

Di seguito il testo di tutta la canzone (che merita l'ascolto)...

li puli puli pu'
fa il tacchino
qua qua qua qua
l'ochetta
ci ci ci ci'
fa il pulcino
e di noi che cosa sara'
se gan de di'
il viulinista
che sonen semper
in fund a l'orchestra
a la matina
quand leven su
ciapen l'archet
e sel pichen in del
Puli puli puli pu'
fa il tacchino
qua qua qua qua
l'ochetta
portate qui l'inquilino
e di noi che cosa sara'
se gan de di' i peruchè
che a far la barba
a le el so mestè
a la matina quand leven su
ciapen el penel
e sel pichen in del
Puli puli puli pu'
fa il tacchino
cif ciaf cif ciaf
fa il pennello
mandate via l'inquilino
e di noi che cosa sara'
se gan de di'
alura i dentista
che te impenissen
la buca de pasta
a la matina quand leven su
ciapen la protesi e
la pichen in del
Puli puli puli pu'
fa il tacchino
co co co co' il codrillo
lasciate li' l'inquilino
e di noi che cosa sara'
se gan de di'
quei di giurnall
che 'l so meste' le de cunta'
su i ball
a la matina quand leven su
ciapen lo scoop
e sel pichen in del
Puli puli puli pu'
fa il tacchino
faxa la telescrivente
parlaci tu all'inquilino
e di noi che cosa sara'
e quei che fan i vegetariani
solo lenticchie
piselli e banani
a la matina quand leven su
ciapen un carciofo
e sel pichen in del
Puli puli puli pu'
fa il tacchino
ma mamma mia il mandrillo
non trovo piu' l'inquilino
e di noi che cosa sara'
E quei che navigan in internet
passen la vita
a cercar i tett
a la matina quand leven su
cerchen il mouse
e sel troven in del
Puli puli puli pu'
fa il tacchino
pric prac pric prac
fa il purgante
buttami giu' l'inquilino
e di noi che cosa sara'
e quei che ghan
il cellulare
che parlen sempre con l'auricolare
a la matina quand leven su
el Gi Esse Emme sel pichen in del
Puli puli puli pu'
fa il tacchino
qua qua qua qua
l'ochetta
voglio affittar l'inquilino
e di noi che cosa sara'
e quei che fan
la televisiun
che rimpirlissen la pupulasiun
a la matina quand leven su
ciapen la moviola
e se la pichen in del
Puli puli puli pu'
fa il tacchino
ridammi indietro il pulsante
ma vada via i ciapp l'inquilino
e di noi che cosa sara'
e di noi che cosa sara'


10 ottobre 2005

Siamo tutti in pericolo - Intervista a Pasolini 01/11/1975

Di seguito il testo dell’intervista di Furio Colombo a Pier Paolo Pasolini pubblicato sull’inserto “Tuttolibri” del quotidiano “La Stampa” l’8 novembre del 1975.

Avevo 10 anni, adesso ne ho 40, sono passati 30 anni e i politici, i letterati, i sociologi e gli esperti di tutti i generi sono sempre più lontani dalla gente comune, "lontani come la Luna".
L'attualità del pens
iero di Pasolini non devo essere io a rammentarla.
Soprattutto adesso che, per colpa di un governo
fascista, siamo tutti, veramente, in pericolo.
Quanto servirebbe adesso una persona, un intelletuale vero, così......



Questa intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre, fra le 4 e le 6 del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato. Voglio precisare che il titolo dell’incontro che appare in questa pagina è suo, non mio. Infatti alla fine della conversazione che spesso, come in passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista. Ci ha pensato un po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. «Ecco il seme, il senso di tutto - ha detto - Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo”».

Pasolini, tu hai dato nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò «la situazione», e tu sai che intendo parlare della scena contro cui, in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La «situazione» con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della «situazione». Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi, intendo...
Sì, ho capito. Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare al loro congresso). In grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, «assurdo» non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici, a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava, una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, «la situazione», e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo.
(...)
Che cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani?

Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono.

Ti hanno accusato di non distinguere politicamente e ideologicamente, di avere perso il segno della differenza profonda che deve pur esserci fra fascisti e non fascisti, per esempio fra i giovani.
Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto riderei bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo... È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno - se torno - ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità.
E qual è la verità?
Mi dispiace avere usato questa parola. Volevo dire «evidenza». Fammi rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. Allora una prima divisione, classica, è «stare con i deboli». Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.

Allora fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente abolisci tutto. Ma tu vivi di libri, e hai bisogno di intelligenze che leggono. Dunque, consumatori educati del prodotto intellettuale. Tu fai del cinema e hai bisogno non solo di grandi platee disponibili (infatti hai in genere molto successo popolare, cioè sei «consumato» avidamente dal tuo pubblico) ma anche di una grande macchina tecnica, organizzativa, industriale, che sta in mezzo. Se togli tutto questo, con una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo-cinese, che cosa ti resta?

A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa, colti come me o ignoranti come me. Il mondo diventa grande, tutto diventa nostro e non dobbiamo usare né la Borsa, né il consiglio di amministrazione, né la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che molti di noi sognavano (ripeto: leggere l’orario ferroviario dell’anno prima, ma in questo caso diciamo pure di tanti anni prima) c’era il padrone turpe con il cilindro e i dollari che gli colavano dalle tasche e la vedova emaciata che chiedeva giustizia con i suoi pargoli. Il bel mondo di Brecht, insomma.

Come dire che hai nostalgia di quel mondo.
No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere «di che segno sei». Chiunque sia portato in fin di vita all’ospedale ha più interesse - se ha ancora un soffio di vita - in quel che gli diranno i dottori sulla sua possibilità di vivere che in quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica del delitto. Bada bene che io non facio né un processo alle intenzioni né mi interessa ormai la catena causa effetto, prima loro, prima lui, o chi è il capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la «situazione». È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. l’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del «cantando sotto la pioggia». Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico: non perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati.

E tu, per questo, vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici.
Detta così sarebbe una stupidaggine. Ma la cosiddetta scuola dell’obbligo fabbrica per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. Mettiamo che io abbia lanciato una boutade (eppure non credo) Ditemi voi una altra cosa. S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di fari libera e padrona di se stessa. S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella storia italiana e in quella del mondo. Il meglio di quello che penso potrà anche ispirarmi una delle mie prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato «la vita violenta». Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra, delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali.

Ma abolire deve per forza dire creare, se non sei un distruttore anche tu. I libri per esempio, che fine fanno? Non voglio fare la parte di chi si angoscia più per la cultura che per la gente. Ma questa gente salvata, nella tua visione di un mondo diverso, non può essere più primitiva (questa è un’accusa frequente che ti viene rivolta) e se non vogliamo usare la repressione «più avanzata»...

Che mi fa rabbrividire.

Se non vogliamo usare frasi fatte, una indicazione ci deve pur essere. Per esempio, nella fantascienza, come nel nazismo, si bruciano sempre i libri come gesto iniziale di sterminio. Chiuse le scuole, chiusa la televisione, come animi il tuo presepio?
Credo di essermi già spiegato con Moravia. Chiudere, nel mio linguaggio, vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e disperata è la situazione. Quello che impedisce un vero dibattito con Moravia ma soprattutto con Firpo, per esempio, è che sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltavano le stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato? Prima del cancro, dico. Ecco prima di tutto bisognerà fare non solo quale sforzo per avere la stessa immagine. Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi.

Perché pensi che per te certe cose siano talmente più chiare?

Non vorrei parlare più di me,forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.
Pasolini, se tu vedi la vita così - non so se accetti questa domanda - come pensi di evitare il pericolo e il rischio?

È diventato tardi, Pasolini non ha acceso la luce e diventa difficile prendere appunti. Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede di lasciargli le domande.
«Ci sono punti che mi sembrano un po’ troppo assoluti. Fammi pensare, fammeli rivedere. E poi dammi il tempo di trovare una conclusione. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare. Ti lascio le note che aggiungo per domani mattina».
Il giorno dopo, domenica, il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini era all’obitorio della polizia di Roma.